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PAOLO RUMIZ A MATERA: ALLA RICERCA DELL'APPIA PERDUTA


Salvare la memoria di un territorio raccontandola, ripercorrere a piedi l’antica via consolare romana che collega Roma a Brindisi, mollare il porto sicuro per perdersi nell’incompiuto. Lo ha fatto una pattuglia di viandanti del profondo Nord d’Italia capitanata dallo scrittore triestino Paolo Rumiz, giornalista de La Repubblica, che ha riportato il suo cammino laico nel libro “Appia” -ed. Feltrinelli-, definito da lui stesso “un atto civile di restituzione di un bene abbandonato”, presentato a Matera domenica 28 agosto nel cortile dell’ex Ospedale di San Rocco.

Camminare è un altro modo di stare al mondo. Quando si cammina, si vive una situazione estremamente particolare, si tocca il terreno con le piante dei piedi, nobilissimi organi di senso. Il viandante è come un San Tommaso che si fida solo delle proprie emozioni – esordisce Paolo, che della sua vita raminga ne ha fatto un lavoro, raccontando per quindici anni delle grandi storie di viaggi su La Repubblica.

Sulla scorta della quinta satira di Orazio e del celeberrimo invito kerouachiano al “comunque andare”, ha percorso seicentododici chilometri accompagnato dal geografo Riccardo Carnovalini, dal regista Alessandro Scillitani, dall’architetto Irene Zambon e da tanti altri compagni temporanei che, per piacere o per volontà, hanno seguito il suo istinto errabondo, sbalordendo i detrattori del “Chissenefrega di Brindisi! Vuoi mettere Santiago?”. Perché ci vuole coraggio ad andare dove nessuno vuole andare, riscoprire i tratturi, le strade sconnesse, sporcarsi con la terra nuda, percorrere territori totalmente marginali, cancellati dal tempo e dall’uomo, sconosciuti perfino agli stessi abitanti del Sud.

La via Appia è il Sud, che non è una fotocopia sbiadita del Nord, ma l’Italia più autentica allo specchio, il basolato romano, la bellezza malinconica e fuggitiva, è la quintessenza di un’Italia minore di meraviglie nascoste. Rumiz si perde in questo groviglio di suggestioni, paesaggi e storie, umanità e natura, “ficcando il naso” in una terra incolta, ma centralissima al tempo dei romani, ripercorrendo la strada attraverso la quale l’immensa cultura greca è arrivata a rendere meno barbari i romani. E’ un viaggio inedito e autentico, il suo, un corpo a corpo estraneo a stereotipi e semplificazioni, compiuto con l’animo curioso del viaggiatore e l’occhio critico del giornalista, in bilico, per cui, tra l’incantamento e l’indignazione. C’è il giornalismo rumiziano, quello fatto raccontando se stesso e le storie degli altri, alternando scherno e suggestione. E poi il paesaggio, quello dell’anima, che interroga l’uomo con la sua geologia unica e il surplus di storia, il rumore del niente e del vento sul confine indistinto della storia e le visioni di fantascienza che lasciano poco all’immaginazione quando il soprassalto identitario si fa imperioso.

E se è vero che ci vorrebbe più attenzione che crescita, che essere rivoluzionari oggi significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità (Franco Arminio, ndr), l’atto anarchico di Rumiz è restituire il contenuto umano e paesaggistico di un cammino che “vale dieci volte il cammino di Santiago”. Non è la pietra, il sasso a fare la differenza, ma la capacità di narrarlo, di raccontare. Se non le sai narrare, le pietre non dicono niente. – sostiene risoluto l’autore, che dal suo infinito viaggiare ha imparato a vivere, apprendendo le pratiche semplici del buon vivere come l’oralità, la condivisione, la ricerca della traccia, l’ascolto dei luoghi senza voce.

Non si sofferma solo sui sorrisi e sulle albe, le strette di mano e i canti, ma approfondisce la conoscenza del territorio mostrandone pregi e difetti, e con il disincanto e la rudezza triestina denuncia come la Regina Viarum sia un bene clamorosamente abbandonato, riflesso del rapporto malato tra gli italiani e la loro storia, troppo spesso dimentichi di camminare sulle loro strade. Unica responsabilità: preservare questa grande bellezza con un turismo lento e sostenibile, rifuggendo il “pericolo Hollywood” (Matera impara!), perché, quando il confine si fa più labile, sentire è più facile che capire, il viaggio diventa esperienza iniziatica e individuale, un’Odissea di esperienze dove non c’è Google Maps che tenga e nessuna illusione di ubiquità può scoraggiare il viandante, straniero in ogni dove e autoctono in nessun luogo, ma consapevole che il cammino è sempre da ricominciare.

L’evento è stato promosso da: C.P. per il Club UNESCO di Matera (coordinatrice: Stefania De Toma), Club UNESCO del Vulture, Ente Parco della Murgia Materana, Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio, La Scaletta Giovani, Libreria Di Giulio. Con letture di Emilia Fortunato ed Emilio Andrisani (Hermes Teatro Laboratorio).

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